Il personal branding non è body building


Creare la propria personalità professionale non è questione di ginnastica e di muscoli, ma di testa e cuore.

In un mercato che sempre più si basa sulla relazione e sulla conversazione, a che cosa serve mostrare i muscoli, farsi bello?


 

Il personal branding non è specchiarsi azzimati nello specchio e farsi selfie da diffondere sperando di trovare persone adulanti.
Non è il sudore sulla fronte e l’olio sui bicipiti, non è il CV gonfiato con il botulino e i seni rifatti prosperosi.
Non è parlare sempre di sé, non è dire IO all’inizio di ogni frase.

 

È saper ascoltare, saper dire noi, saper scivolare nell’ombra e lasciare il posto al sole a qualcun altro.
È spezzare il pane, ringraziare, bersi un caffè insieme.
Lasciare l’homo-homini-lupus agli uomini-lupo e scegliere di essere uomini e basta.

 

Per costruire ci vuole una base solida, progetto e pazienza. Pensare al terzo piano senza aver gettato le fondamenta, porta al crollo.
Il mercato si sta trasformando in conversazione e premia sempre più le relazioni, come se ci fosse una tendenza ad andare oltre all’apparenza delle cose (senza esagerare, dato che gran parte del mercato e dei suoi consumatori e produttori vive necessariamente di superficialità e di effimero).

 

Ultimamente mi è capitato di assistere ad un intervento di un Head Hunter nel settore moda che lamentava come le persone gonfiassero a dismisura i propri profili Linkedin per essere assunti. E le aziende spesso ci cascano. Chi fa selezione del personale cono terzi invece no, perché verifica, intuisce per esperienza percorsi troppo lisci, competenze specchietto. Nessuno vuol fare la figura dell’allodola, eppure…

Si racconta di direttori internazionali che in realtà gestivano uffici provinciali, di persone professatesi quasi madrelingua che parlavano un inglese stentato, di capacità inventate, di posti di lavoro mai avuti: cioè di persone che su Linkedin dicono di aver lavorato in certe ditte e non lo hanno fatto.

 

E nel campo dei creativi, quanti di noi mettono solo i loghi delle aziende per cui hanno lavorato e non i progetti?
A volte, si vuole nascondere un rapporto fugace, un unico insignificante lavoro con una grande azienda.
Chi casca in queste trappole, cliente o direttore del personale, vuol dire che usa lo stesso metro del professionista birichino: guarda gli status, i Rolex, i gagliardetti, le medaglie appuntate sul petto, ascolta gli aneddoti e non prova a valutare personalmente e seriamente la persona che ha davanti.

 

È adatto per me, per la mia azienda? Sa lavorare? È serio, affidabile?
Il fatto che non abbia lavorato per grandi aziende è stata solo questione di opportunità mancate e non di incapacità?
Il mercato, d’altronde, è vasto.
E cosa ne pensano quelli che hanno lavorato con lui?

 

La presenza online mediata dai Social e quindi da un modo virtuale di creare competenze, pubblico, referenze, necessitano uno sforzo in più per verificare e scoprire chi abbiamo davanti. Il web si basa sui contenuti, sulla concretezza, eppure continuiamo ad essere succubi della forma. Usiamo gli occhi per valutare, come le gazze: prendiamo ciò che luccica.

Dall’altra parte, in chi si propone, persiste un infantile e comprensibile bisogno di farsi più grandi per affrontare i grandi, un meccanismo molto umano per carità, ma dobbiamo avere il coraggio di mostrarci per come siamo, per i clienti che abbiamo, per ciò che abbiamo fatto.

 

La passione che mettiamo in un lavoro la mettiamo in ogni lavoro.
Il modo in cui trattiamo ogni cliente è il modo in cui li trattiamo tutti (altrimenti è servilismo oppure opportunismo).

“Il modo in cui fai una cosa è il modo in cui fai ogni cosa”.

 

Ecco, il personal branding è pieno di trappole per chi pesca e per chi si fa pesce.


 

Se vuoi approfondire il tema del Persona Branding, su Shivu se ne è parlato spesso
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I segreti della presenza online per i professionisti

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