Il graphic design italiano che fu…


Sul Corriere della Sera di oggi si parla del graphic design che fu e si intuisce il vuoto…

Sembra proprio che fino ad un certo periodo, metà degli anni 70, le grandi aziende e i grandi marchi italiani dessero molta responsabilità ai progettisti con cui collaboravano, dando loro anche la libertà di sperimentare. E riuscivano spesso a costruire dei codici visivi che divenivano marchi essi stessi.

“Con inguaribile ottimismo si affronta la fila per ammirare il graphic design italiano alla Triennale. Capita così di scoprire che ‘in antico’ i nostri predecessori venivano investiti di responsabilità che noi oggi neanche ci sognamo: progetti per marche come Olivetti, Pirelli, Rinascente, che presentano segni inequivocabili di appartenere ad un design di serie A.

Che il mondo ci ha invidiato e spesso copiato. Lavori in cui ci si metteva in gioco, come designer e forse soprattutto come aziende. Che bello. A fare un’analisi meno emozionale emerge però un dato preoccupante: i progetti in questione, immortalati da innumerevoli iphone dei molti visitatori, sono per la maggior parte antecedenti al 1975. “Formidabili quegli anni”, viene da dire, peccato che  molti di noi non erano neanche nati,  professionalmente e/o come da anagrafe.

Anche i grandi marchi di prodotti alimentari – che attualmente sfoggiano un packaging che, con le sue zuccherosità nazionalpopolari, più altro lo toglie, l’appetito – quegli stessi marchi ‘a quei tempi’ sapevano a chi affidare il lavoro, invece.”

dall’articolo di Claudia Neri

La riflessione è: colpa nostra, dei graphic designer, o colpa dei committenti? Il mercato è cambiato e anche il progettista è stato ingoiato dalle varie agenzie di pubblicità prima, di comunicazione integrata poi, ma non è nemmeno questa la ragione. La ragione è che adesso non viene lasciato più spazio all’intuizione, all’amore per il lavoro, alla concezione che già fare una cosa bella possa bastare. Tutto è targettizzato, analizzato, sezionato e deve portare al profitto economico, non più ad un profitto emotivo, apparentemente intangibile eppure molto gratificante.

Viene da pensare che le aziende non abbiano più il coraggio di affermare la loro unicità e si accontentino di vendere un po’ più dei concorrenti. È saltato quel fattore umano e imprevedibile che rendeva la comunicazione divertente e stimolante.

Com’è che siamo passati da queste pubblicità colorate, eleganti ed ironiche ad una serie di foto tutte uguali, perlopiù con donne scosciate che urlano slogan sgrammaticati?