Saul Steinberg: il dominio del segno
“La gente, quando vede un disegno sul New Yorker penserà automaticamente che fa ridere perché è un cartoon. Se lo vedono in un museo, penseranno che è artistico e se lo troveranno in un biscotto della Fortuna penseranno che è una predizione”.
Il disegno è pensiero: trasforma qualcosa di intangibile che si è formato nella nostra mente in un insieme di segni che diventano visibili su di un foglio (o su qualsiasi altro mezzo che sia). Il disegno, nella sua forma più pura di “segno”, cioè ridotto ad una linea che da sola riesce a descrivere mondi, attraverso forme e trame, è una delle espressioni umane più semplici e potenti.
Uno dei linguaggi più intelligenti che l’essere umano abbia imparato a sviluppare.
Per un illustratore è difficile venire ricordato in quanto disegnatore di linee, quindi minimale, minimo, senza sotterfugi o addirittura colori. È difficile perché si semplifica talmente la rappresentazione da rasentare l’astrazione, ma chi ci riesce raggiunge un equilibrio meraviglioso con l’essenza delle cose e la chiarezza del linguaggio.
Negli ultimi decenni l’immaginario visivo ha continuato ad arricchirsi, ad accumularsi, preferendo immagini ricchissime, fastose, piene rispetto ad immagini essenziali, minimali, scarne, visivamente monosillabiche, quasi simboliche. Si è preferito il rumore al silenzio, la presenza all’essenza: la paura del vuoto e della calma ci ha portato a riempire ogni angolo del nostro spazio visivo (e mentale). Con il risultato che spesso tutto questo accumulo di immagini non ci trasmette niente, nessuna emozione, se non un’ansia e un desiderio di ulteriore accumulo.
Diventiamo dipendenti della ricerca, sperando che la prossima immagine sarà sempre più bella e significativa. Eppure basta alle volte molto meno per comunicare con un’immagine: questo è quello che ci ha insegnato Saul Steinberg, uno dei più grandi artisti del Novecento.
Nato in Romania negli anni Dieci, si trasferisce poco più che ventenne a Milano per completare gli studi e inizia a pubblicare le prime vignette satiriche. Prova a scappare dall’Italia nel 1940, ma a causa delle leggi razziali viene arrestato e incarcerato a San Vittore. Scapperà solo un anno dopo, sbarcando negli Stati Uniti dove rapidamente troverà il successo. Lavorerà subito per il New York Times per il quale lavorerà 60 anni, realizzando 642 illustrazioni e 85 copertine, di cui alcune memorabili.
È un artista che crede nel dominio del segno, della auto-consapevolezza della linea: crede soprattutto che il disegno, senza troppi orpelli, sia perfetto per rappresentare un pensiero.
Così dalla sua penna scaturiranno centinaia di giochi e paradossi visivi, che via via saranno ripresi e rielaborati dagli artisti successivi: la sua opera diviene una delle più grandi raccolte di raffigurazione del pensiero in disegno che si possa immaginare.
Affermava che il suo era un “ragionare su carta” e quando disegnava analizzava la società e gli istinti degli uomini.
Erroneamente veniva considerato un cartoonist, in Italia un vignettista umoristico: non illustratore né artista. Eppure si avvicinarono a lui molti grandi intellettuali dell’epoca: da Italo Calvino a Roland Barthes, Eugene Ionesco ed altri che contribuirono a consacrare l’arte di Steinberg come rappresentazione universale della condizione umana. E si capiva che il suo pensiero sul disegno era simile a alla ricerca artistica di Sol Lewitt, alle sculture di Calder o all’essenzialità di Bruno Munari.
È stato un artista amatissimo: divenne famoso in tutto il mondo e il suo stile così essenziale fece scuola. Si formarono un sacco di artisti sotto la sua influenza: vignettisti e illustratori, che hanno fatto del segno uno strumento corrosivo per denunciare la stupidità e i paradossi del mondo occidentale.
Si formeranno alla sua “scuola” il grande cartoonist argentino Quino, che nelle sue illustrazioni satiriche prosegue la tradizione di Steinberg, caricandola di un barocchismo tipicamente sudamericano. Si rifaranno a lui in anni più recenti anche il nostro Guido Scarabottolo, citando i suoi scarni paesaggi metafisici (come aveva già fatto il grande Tullio Pericoli anni prima), oppure il geniale Serge Bloch che gioca anche lui con il segno, le foto e il bianco e il nero.
Le rappresentazioni di Steinberg sono archetipiche, anche se lui amava parlare di maschere: quando rappresentava una donna non era interessato a ritrarne la carne, le fattezze, l’eventuale bellezza, ma era interessato alla sua maschera e alla storia che si nascondeva dietro la sua faccia e al come poterla raccontare.
Steinberg è ritratto spesso con un sacchetto di carta in testa: questa era la sua idea di maschera. Un qualcosa che potesse camuffare e che permettesse un nascondiglio. Diceva che le donne in America indossavano continuamente maschere, ad esempio quando si truccavano. Perché quello era un loro modo di difendersi dalla società.
Si possono individuare alcune caratteristiche ben riconoscibili nella sua arte.
- La prima è il dominio della linea: pulita, fatta a pennino più che a pennello, nera, di lei diceva lo stesso Steinberg: “la mia linea vuole costantemente ricordare che è fatta d’inchiostro”.
- La seconda è l’uso dello stile del disegno per esprimere diversi caratteri umani.
- La terza è l’uso del tratteggio in biancoenero, anche questo funzionale a ciò che deve rappresentare.
- La quarta è l’uso particolare dei balloon, dei segni di interpunzione e di tutte le decorazioni tipiche della calligrafia: sono anche questi oggetti e simboli funzionali all’illustrazione. Non vengono mai trattati come semplici contenitori o decorazioni, ma raccontano anche loro qualcosa.
- La quinta è quella del divertimento intelligente, del paradosso come strumento di comprensione: ad esempio Steinberg gioca a disegnare sopra alle fotografie, gioca con il concetto di identità creando fantasiosi passaporti, gioca con stili diversi all’interno di una stessa illustrazione.
Aveva un modo di stilizzare la figura umana che diventerà d’uso comune. In Italia, ad esempio, il suo stile verrà usato da molti vignettisti e finirà addirittura su La Settimana Enigmistica, tra le barzellette che si rifanno al modello di “vignetta con testo” usato dal New Yorker. Anche Bruno Bozzetto si rifà a quel modo di stilizzare la figura umana (seppure con risultati diversi, specie per la caratterizzazione del volto) quando realizza il geniale Signor Rossi, emblema dell’italiano medio. E lo fanno Seignac e tanti altri grandi disegnatori dell’epoca, forse influenzandosi a vicenda.
Del suo modo di rapportarsi all’essere artista diceva: “Sono una mano che disegna e basta”.
E in effetti il suo modo schietto di tradurre in immagini il pensiero scavalcava le correnti artistiche e si infilava nella quotidianità: Steinberg è stato uno degli artisti più influenti del Novecento e probabilmente tra i meno riconosciuti.
I suoi disegni sono più famosi dell’uomo che li realizzava.
In conclusione, la sua arte è sempre stata rivolta al modo in cui l’artista la produce e non si è mai preoccupata di raccontare ciò che vedeva, ma ciò che si poteva vedere ribaltando i canoni visivi.
Le sue linee erano puro pensiero.
“Io sono tra i pochi che continuano a disegnare dopo la fine dell’infanzia,
persistendo a perfezionare i tratti infantili, senza le tradizionali interruzioni accademiche”.
È stato anche un buon scrittore e si trovano su di lui alcuni libri interessanti, ad esempio i carteggi con l’amico milanese Aldo Buzzi, pubblicati da Adelphi.
Per concludere, un estratto da un’intervista che gli fece Sergio Zavoli, in cui racconta il disegno in modo memorabile:
“Il disegno come esperienza e occupazione letteraria mi libera dal bisogno di parlare e di scrivere. Lo scrivere è un mestiere talmente orribile, talmente difficile… Anche la pittura e la scultura sono altrettanto difficili e complicate e per me sarebbero una perdita di tempo. C’è nella pittura e nella scultura un compiacimento, un narcisismo, un modo di perdere tempo attraverso un piacere che evita la vera essenza delle cose, l’idea pura; mentre il disegno è la più rigorosa, la meno narcisistica delle espressioni.” |
(Saul Steinberg, intervista di Sergio Zavoli, 1967) fonte Wikipedia |
Questo il sito della Saul Steinberg Foundation
e questo il link ad una sua intervista fatta da Pierre Schneider.
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